Immersa nella splendida cornice paesaggistica del Vulture Melfese, la città di Melfi aveva una cinta muraria abbastanza particolare nell’Italia meridionale. L’abitato è ancor oggi dominato dal maestoso castello normanno-svevo, costruito dai normanni e ampliato da Federico II di Svevia, nelle cui stanze, ha sede il “Museo Archeologico Nazionale del Vulture Melfese Massimo Pallottino”, in cui è custodita l’importante documentazione archeologica rinvenuta nel comprensorio del Vulture Melfese. Essendo stata caratterizzata dalla presenza bizantina anche il Vulture e Melfi hanno degli straordinari esempi di chiese rupestri come quelli di Santa Margherita e Santa Lucia (XIII sec.) scavate nel tufo, oltre alla splendida cattedrale di Santa Maria Assunta in stile svevo bizantino gotico, con soffitto a cassettoni decorato in oro zecchino.
Chi sceglie di intraprendere un itinerario tra i luoghi della cultura a Melfi, potrebbe lasciarsi guidare dalle impressioni del paesaggista e scrittore inglese Edward Lear, che nella metà del XIX secolo definisce il castello di Melfi “degno dei migliori quadri di Poussin”.
Dall’alto della sua posizione, proprio sulla cima della città del Vulture, è considerato uno tra i più importanti castelli medievali del Meridione d’Italia, impreziosito dal Museo Archeologico Nazionale del Vulture Melfese “Massimo Pallottino”.
La storia del maniero è legato alle figure di spicco che si sono succedute nel corso degli anni e dei secoli a Melfi: voluto da Roberto il Guiscardo, ampliato da Federico II, dotato di nuove torri da Carlo I d’Angiò, rimaneggiato dai Caracciolo e dai Doria. A vederlo quasi emerge sulla sommità di un colle, non si può non condividere l’opinione di quanti lo considerino il castello più noto della Basilicata e uno dei più grandi del sud Italia.
Subito si impongono allo sguardo le dieci torri, sette rettangolari e tre pentagonali, dei quattro ingressi, tre sono angioini, e attraverso uno di essi, aperto di Doria, si accede al borgo attraverso un ponte, un tempo levatoio. Superato il portone, si entra nel bel cortile principale, su cui affacciano il palazzo baronale e la cappella gentilizia.
Al piano terra del castello è ospitato il Museo Archeologico Nazionale del Melfese, in cui è custodita l’importante documentazione archeologica rinvenuta nel comprensorio dell’area, mentre nella torre dell’Orologio si può apprezzare lo splendido Sarcofago romano, ritrovato nel 1856, noto anche come “Sarcofago di Rapolla”, perché un tempo conservato nella piazza della cittadina del Vulture.
Appartenuto di certo a un personaggio di rango elevato, è un raffinato prodotto della seconda metà del II secolo proveniente dall’Asia Minore. Sul coperchio è raffigurata la defunta sdraiata.
Circondata interamente da antiche mura normanne con torrioni di avvistamento, Melfi ha una cinta muraria unica nell’Italia meridionale della quale fa parte l’incantevole Porta Venosina, in stile gotico e con portale a sesto acuto con l’archivolto a toro scanalato, sostenuto da capitelli a tronco di piramide rovesciata. È l’unico dei sei accessi alla città ancora esistente lungo la cinta muraria e prende il nome dal fatto che essa partiva da un’arteria che conduceva alla via Appia, quindi a Venosa.
La porta è affiancata da due bastioni cilindrici del ‘400, a rafforzamento delle capacità difensive, ed è impreziosita da due bassorilievi che la affiancano, quello di destra raffigurante lo stemma di Melfi, l’altro, a sinistra, quello dei Caracciolo. Alla lapide celebrativa dell’antica gloria e della grandezza della città, voluta da Federico II, è stata sostituita quella di Giovanni II Caracciolo ancora oggi visibile.
Dell’edificio normanno della cattedrale di Melfi edificato nel 1153 resta solo il campanile, mentre il corpo dell’edificio è stato quasi interamente rifatto nel XVIII secolo in stile barocco. Inizialmente dedicata a San Pietro ed edificata da Roberto il Guiscardo, della originale cattedrale di Melfi non resta alcuna traccia. Il contrasto tra lo stile normanno del campanile e quello della facciata della chiesa è dovuto al rifacimento di quest’ultima a seguito del sisma del 1694. Bianca, è divisa da un cornicione ed entrambi i piani sono attraversati da lesene con capitelli corinzi, mentre il portale in pietra bianca è decorato da due angeli che sorreggono una cornice ovale.
A tre navate, bellissimo è il soffitto a cassettoni dorati che decora la navata centrale, con in fondo l’altare maggiore in marmi pregiati. Davvero pregevoli sono anche un trono splendente in legno intagliato, un coro ligneo del 1557, un organo e un pulpito del XVIII secolo.
Il campanile, a pianta quadrata, si sviluppa su tre piani decorati da imponenti teste di leoni in pietra bianca e bifore circondate da fregi policromi in lava scura e chiara, con l’eccezione, all’ultimo piano, dell’utilizzo di pietre vulcaniche bianche e nere del Vulture che compongono un mosaico.
Simboli della religiosità della città di Melfi quelle di Santa Margherita e Santa Lucia (XIII sec.) sono due straordinari esempi di chiese rupestri scavate nel tufo. La chiesa rupestre di Santa Margherita custodisce pregevoli affreschi di santi raffigurati negli stili bizantino e catalano, la vita e il martirio di Santa Margherita e il noto “Monito dei morti” che sembra ritrarre proprio l’Imperatore Federico II di Svevia con la sua famiglia. Nella chiesa rupestre di Santa Lucia si può ammirare un affresco raffigurante la vita e il martirio della Santa e una Madonna con Bambino in trono. Entrambi i luoghi sacri possono essere visitati su prenotazione.
Le pendici del Vulture sono ricoperte nelle pendici più basse da immensi castagneti e molto ricercata è la varietà coltivata in loco, il “Marroncino”, e altra particolarità di Melfi e numerosi altri comuni del Vulture e Alto Bradano, è la coltivazione della varietà d’uva, l’Aglianico, che prediligendo i terreni di origine vulcanica, abbondanti nella zona, dà vino rosso di eccellente qualità.
L’area del Vulture è uno dei luoghi più intimi e paesaggistici della terra lucana e i versanti del vulcano sono ricoperti da una fitta e rigogliosa vegetazione favorita dalla naturale fertilità dei terreni. Proprio tra le sue selve, a cavallo tra il 1861 e il 1863, trovano rifugio i protagonisti del fenomeno del brigantaggio post-unitario, che individua i suoi principali centri di sviluppo nei comuni di Melfi, Rionero in Vulture, Atella, Rapolla.
In questo scenario verdeggiante, a poco più di dieci chilometri da Melfi, si inseriscono i due Laghi di Monticchio, uno più grande, l’altro più piccolo e Riserva Regionale. I due specchi d’acqua sorgono proprio al posto del cratere del Vulture, vulcano ormai spento, e in essi si riflette la splendida Abbazia benedettina di San Michele.
Costruita sui fianchi dell’antico cratere, l’abbazia, insieme ai resti del complesso di Sant’Ippolito, è la testimonianza tangibile della presenza di ordini monastici nel territorio del Vulture. Non sfuggono agli occhi più attenti gli affreschi risalenti alla metà dell’XI secolo.
L’Abbazia di San Michele è anche sede del Museo di storia naturale del Vulture che propone sette tappe (il cammino dell’uomo del Vulture; la via di fauna; la via di flora; la via di gea; laboratori e mostre temporanee; gli habitat e le collezioni; la culla della rara falena “Bramea”) di un percorso che va dall’Homo Erectus di Atella fino ai giorni nostri, alla conoscenza degli insediamenti urbani dell’area e all’esplorazione del mondo vegetale e animale.
L'Aglianico è un noto vitigno a bacca rossa coltivato prevalentemente in Basilicata, Campania, Puglia e Molise.
L'utilizzo del vitigno è predominante nella zona del Monte Vulture con i centri di produzione riguardano i comuni del Melfese e l’Alto Bradano. Un’altra ottima zona di produzione dell’Aglianico è il Cilento. L'Aglianico del Cilento è un vino DOC la cui produzione è consentita nella provincia di Salerno.
Si tratta di uno dei vini più apprezzati e famosi del Sud italiano, dagli esperti definito il Barolo del Sud. Il vitigno è stato introdotto negli ultimi anni anche in California e Australia, dato che si sviluppa in climi prevalentemente soleggiati. È un vitigno antico, probabilmente originario della Grecia e introdotto in Italia intorno al VII-VI secolo a.C. Una delle tante testimonianze della sua lunga storia è il ritrovamento dei resti di un torchio romano nella zona di Rionero in Vulture, provincia di Potenza. Non ci sono certezze sulle origini del nome, che potrebbero risalire all'antica città di Elea (Eleanico), sulla costa tirrenica della Campania, o essere più semplicemente una storpiatura della parola Ellenico. Testimonianze storico-letterarie sulla presenza di questo vitigno si trovano in Orazio, che cantò le qualità della sua terra natia Venosa e del suo ottimo vino. L'Aglianico del Vulture, considerato uno dei migliori vini rossi italiani è per ora l'unico vino della provincia di Potenza che ha ottenuto il marchio DOCG il 30 novembre del 2011 con il nuovo nome Aglianico del Vulture Superiore. Il vecchio Aglianico del Vulture resta come DOC, assieme al Terre dell'Alta Val d'Agri, che ha ottenuto la menzione il 18 febbraio del 1971.
Melfi ha celebrato nel 2018 il millenario della fortificazione della città. Un appuntamento unico, intriso di storia, cultura ma soprattutto di ricerca accademica. Già perchésono tante le lacune ancora presenti e che non consentono di avere una visione obiettiva di quello che è il passato della città.
Si tende, a buon ragione, a considerare Melfi la città di Federico II. Ma Melfi ha una storia che si perde nella notte dei tempi e che deve stuzzicare la curiosità tanto degli studiosi quanto dei cittadini. Non è un caso che in seno al millenario è nato un comitato scientifico presieduto dal professore Fonseca e che nel corso dei mesi ha richiamato medievisti da tutta Europa per porre finalmente sotto una nuova luce la complessa realtà di Melfi nei secoli del Medioevo. Tra gli studiosi che si interessano alla causa, figura il dottor Alessandro Panico, figura intellettuale e poliedrica che sta portando avanti uno studio capillare su Melfi e sulla fondazione della cinta muraria. Di seguito la sua preziosa relazione che approfondisce la nascita della fortificazione cittadina in epoca bizantina, proponendo una serie di ipotesi che ridisegnano la topografia e quindi la storia di Melfi.
“La ricerca sulle origini della fortificazione di Melfi sta ricevendo nuovo impulso in questi mesi, grazie alle celebrazioni per il millenario dell’incastellamento operato dal catapano imperiale Basilio Boioannes. Uno dei problemi tuttora irrisolti è l’individuazione di una data fondativa della città munita, la cui antropizzazione in età medievale precede certamente la battaglia di Canne del 01 Ottobre 1019, data da cui gli storici (Houben, Fonseca, Panarelli e altri) collocano la costruzione del vallo difensivo bizantino: un’unica grande linea fortificata che correva sui rilievi appenninici da Melfi all’Adriatico, passando per Troia, Bovino, Fiorentino, Civitate sul Fortore e un numero significativo di castra minori. Ne è indizio la cronaca di Amato di Montecassino (Ystoire de li Normant), che colloca una battaglia tra i Longobardi di Ismael e i Romani, antecedente a quella del 1019, presso il villaggio Vaccareccia “di Melfi”.
È peraltro noto che il cono vulcanico su cui sorge Melfi era frequentato fin dal VII secolo a.C.: ne è prova la necropoli daunia di Chiucchiari, che probabilmente si spingeva fino all’attuale via Ronca Battista, come riporta Araneo citando il rinvenimento di sepolcri antichi nel 1863, durante i lavori di costruzione della rete fognaria (Notizie Storiche della Città di Melfi). Se, dunque, tutta la parte orientale della collina era luogo di sepoltura, la parte occidentale, più elevata e difendibile, doveva essere fin dall’antichità un’acropoli abitata.
Tale era, con ogni probabilità, il perimetro del castrum bizantino intorno al 1018, conservato dai Normanni per tutto il periodo della Contea Altavilla fino alla nascita del Ducato con il sinodo papale del 1059. Soltanto a partire da quest’anno può ragionevolmente datarsi la nuova fioritura urbanistica e architettonica della città, operata prima da Roberto il Guiscardo e poi da Ruggero Borsa, che sfocia nel trentennio aureo della costruzione delle grandi cattedrali, basiliche e abbazie romaniche meridionali, di cui il complesso episcopale di Melfi è parte integrante al pari di Salerno, San Nicola di Bari, Trani, Lecce, Bitonto, Troia, Ruvo, Acerenza, Sant’Ippolito e la SS. Trinità di Venosa, solo per citare alcuni degli esempi più significativi. Così ampliata, in un perimetro molto simile a quello attuale, la trovarono Melfi i re siciliani Altavilla “di ritorno”, a partire da Ruggero II che fece realizzare il campanile di Noslo di Remerio, concluso nel 1153 durante la coreggenza di Guglielmo il Malo.
Questa ipotesi di evoluzione planimetrica in due grandi fasi trova riscontro, se più indizi fanno una prova, in elementi urbanistici, architettonici e geomorfologici resi leggibili dalle nuove potenzialità della computer grafica. Basta osservare un rilievo plano-altimetrico tridimensionale per notare, ad esempio, che il reticolo viario della parte occidentale rispetto all’asse della “Rua Grande” è molto più capillare e articolato rispetto al resto della città storica e, di conseguenza, gli isolati sono qui molto più frammentati. Se poi ci si cala nelle cantine dei fabbricati prospicienti la Rua Grande, lungo tutto l’asse che dalla piazza del Tribunale scende verso via Bagno, passando per via Vittorio Emanuele, piazza Umberto e via Nitti, si scopre che esse si sviluppano in più livelli, dei quali i più superficiali non sono scavati ma costruiti in “elevazione”: ciò prova che il livello antico dell’asse stradale era molto inferiore a quello attuale e, un tempo, doveva essere un unico grande vallone che tagliava in due la collina come una ruga, separando l’acropoli munita dal resto dell’insediamento. Lo stesso complesso della Cattedrale è stato edificato in area extra-moenia, come i due monasteri francescani tuttora esistenti in città (compreso quello delle Clarisse di cui sarebbe utile indagare le origini primigenie), quello dedicato a San Benedetto su iniziativa di Guglielmo da Vercelli e quello degli Agostiniani.
Rilievo plano-altimetrico tridimensionale del centro storico di Melfi
L’elemento più sorprendente che emerge da questa lettura dell’impronta urbanistica del castrum bizantino è però la sua distribuzione semi-radiale: un unicum assoluto tra le città fortificate. Se, infatti, il modello radiale integrale è comune a molti casi di incastellamento medievale su rilievo e caratterizza anche altri insediamenti acquisiti e modificati dai Normanni (su tutti Aversa: cfr. Stefano Borsi, La Città Normanna, Libria, 2014), la fortificazione di Melfi si caratterizza invece per un impianto semi radiale, con quattro direttrici longitudinali che qui sostituiscono lo schema ortogonale della centuriazione romana per cardi e decumani di pianura. Essi convergono in un unico foro posto a valle, che diventa necessariamente l’accesso principale alla città: si tratta di via San Lorenzo, vico Sant’Andrea, vico Neve/Gradelle e via Santa Lucia. Questi quattro raggi, collegati da piccole traverse che seguono le curve di livello, le cosiddette “trasonne” del gergo popolare, si chiudono perfettamente in un punto, oggi occupato da un fabbricato civile, dove doveva trovarsi in origine la platea del mercato, da cui l’adiacente chiesa templare di “San Nicola della Piazza” trae il nome. I due raggi estremi, inoltre, si dirigono verso le porte contrapposte della prima cinta muraria: alla Calcinaia il radio sud-occidentale, alla Troiana quello nord-orientale. Tre, dunque, erano verosimilmente le porte della città in età bizantina e anche in età proto-normanna, almeno fino alla data convenzionale di cesura del 1059, se si include quella compresa principale ubicata alla confluenza del sistema radiale, che potremmo chiamare di San Nicola.
L’abitato ne risulta suddiviso, con razionalità ed eleganza, in quattro quartieri triangolari di uguale dimensione, disposti a ventaglio, per ognuno dei quali è possibile individuare una chiesa di riferimento, ubicata lungo il corso dell’asse radiale: San Lorenzo, Sant’Andrea, San Teodoro e Santa Lucia. Si nota anche come il sistema difensivo militare impostato dall’esercito di Boioannes prevedesse un’ampia fascia di rispetto, non edificata, posta tra l’abitato e la cinta muraria, soprattutto nella corona nord-occidentale compresa tra la porta Calcinaia e quella Troiana, in cui oggi è incastonato il castello. Probabilmente tale area era riservata alle manovre difensive e a proteggere le abitazioni da lanci ostili provenienti dall’esterno.
La città, infatti, era difesa soprattutto dai ripidi pendii naturali del cono vulcanico, più che dalle mura edificate, tanto che lo stesso Amato da Montecassino definì Melfi “Molto forte per le sue mura, non perché siano alte, ma perché sono poste in alto“. Se questo criterio difensivo valeva lungo tutto il perimetro – e non vi è ragione per dubitarne – allora la cinta bizantina, nel tratto interno all’attuale città, doveva correre molto più in alto rispetto all’asse di via Nitti, dove in epoca successiva sarà effettuato l’ampliamento e realizzata la porta di Santa Maria o del Bagno. Per rendersene conto, basta osservare quanto siano in alto le abitazioni poste a monte di via Nitti, tra vico Pendino e vico San Nicola.
Infine, una notazione sulle quattro chiese dei quartieri bizantini: se San Nicola, Santa Lucia, San Teodoro e Sant’Andrea sono certamente riconducibili al culto greco-orientale (noto l’episodio di spoglio delle reliquie di Santa Lucia operato da Maniace a Siracusa in presenza di Guglielmo Altavilla), la chiesa di San Lorenzo pare un’anomala eccezione. In effetti, essa era suffraganea dell’abbazia benedettina di Sant’Ippolito di Monticchio ed è dedicata a un santo di culto cattolico romano, benedettino e ambrosiano. Inoltre è l’unica chiesa a pianta ottagonale e, soprattutto, non è rivolta a oriente, diversamente dalle altre. Tutti indizi che lasciano pensare a una chiesa fondata in epoca normanna, forse in luogo di altra chiesa bizantina che poteva trovarsi più a valle, se vale il criterio di una chiesa di quartiere lungo ogni direttrice radiale del castrum greco-romano”.